sabato 6 settembre 2014

“Siamo qui”, un assaggio di pragmatica

Mio nonno e il suo insospettabile rapporto con Parmenide

Una cosa che mio nonno ha sempre fatto – e con lui tutta una serie di anziani che ho incontrato, per lo più in Toscana – , quando la conversazione languiva, era quella di spostare lo sguardo lontano, possibilmente verso la linea dell’orizzonte, e sospirare dicendo: “Eh… e siamo qui.”
Prendendo in prestito una terminologia propria della filosofia del linguaggio, potremmo dire che dal punto di vista strettamente semantico – ossia, per quanto riguarda il significato delle parole e delle frasi, cioè solamente ciò che esse indicano, il loro contenuto esplicito – questa frase non possiede un contenuto informativo molto ricco; si limita quasi ad esprimere una tautologia, cioè una affermazione sempre vera indipendentemente da chi la pronuncia e, in questo caso, da dove la si pronuncia – un esempio classico di tautologia è l’enunciato “A è uguale ad A”, affermazione sempre vera indipendentemente da chi sia A, poiché qualunque cosa è sempre uguale a se stessa, con buon pace di Eraclito - : è evidente che ciascuno di noi si trova esattamente dove è.
Dove è nascosta perciò la parte interessante di questa frase?

In parte, in un altro settore della filosofia del linguaggio, che viene chiamato pragmatica, in quanto si preoccupa della prassi, della pratica della comunicazione umana. Facciamo un rapido esempio: se io entro in casa e domando a mia sorella dove si trovi mia madre e lei mi risponde “c’era da fare la spesa”, da un punto di vista strettamente semantico, non ha risposto alla mia domanda. La sua risposta ha però in sé delle informazioni implicite, che infatti si chiamano implicature: se mi ha sorella mi ha risposto “c’era da fare la spesa” alla domanda “dov’è nostra madre?”, io posso dedurre che mia madre si andata a fare la spesa.

Se a questo punto è abbastanza chiaro cosa significa il termine “pragmatica”, possiamo passare a vedere cosa si può leggere, pragmaticamente, nella frase “siamo qui”, al di là del suo significato letterale.
In primo luogo, c’è un senso essenziale che viene veicolato dalla persona che pronuncia la nostra frase: “non sappiamo di cosa parlare; dico queste parole tanto per evitare questo imbarazzante silenzio…”. E questo è probabilmente l’uso principale di tale espressione. Almeno da parte di mio nonno.
Tuttavia mio nonno era una persona di un certo spessore, quindi è assolutamente errato aspettarsi un solo significato implicito in una frase di questo tipo pronunciata da lui.
Mio nonno, superati i settantacinque anni cominciò ad aspettarsi di lasciare questo mondo quasi da un giorno all’altro. Perciò ecco che si può indovinare un secondo senso: “e anche oggi ci siamo, siamo vivi; nonostante tutto, siamo ancora qui.”
Tale senso era particolarmente evidente quando, d’estate, mio nonno se ne stava in giardino, seduto sulla sua sedia a guardare il sole che tramontava verso Firenze.
C’erano poi delle volte che mio nonno usava questa espressione quasi come una chiusa, per mettere il punto, generalmente dopo che magari aveva raccontato qualche suo vecchio ricordo o aneddoto del passato. Sarà capitato a tutti di sentir raccontare qualche vecchia storia da un nonno o da una qualunque persona più anziana. E tutti avranno provato quel senso di divertimento e anche di calore nell’ascoltare. Quando il racconto è terminato, spesso ci sono alcuni istanti di silenzio, nei quali, sorridendo, si rimugina su quanto si è ascoltato. Talvolta c’è qualche domanda.
Mio nonno invece, passata la risata allegra che spesso lo coglieva dopo i suoi racconti, sentiva l’esigenza di mettere come punto un bel “Eh… e siamo qui.”
E in questo caso, nella frase c’era una nota di nostalgia: “ma senti cosa mi ricordo! È passato tanto tempo ed ora siamo qui…”.

E per chiudere, forse un superfluo quarto senso di carattere più ontologico.
In realtà credo che mio nonno non sia mai stato un esperto, né uno molto interessato nel campo della metafisica. Ma per rimediare a ciò, seppur in maniera assai modesta, ci sono io pronto all’uso.
Una frase come “siamo qui” mi riporta alla mente un po’ di Parmenide.
Parmenide, uno dei filosofia presocratici, fondatore della scuola di Elea, intorno al 500 a.C. Di lui è facile che ci si ricordi una formulazione della sua teoria filosofica: “l’essere è e non può non essere”.

Da quel che ci è rimasto dalle opere di Parmenide, leggiamo come il filosofo affermi che ‘ciò che è’ è l’unica cosa vera e l’unica che può essere conosciuta, ma l’uomo spesso mescola ‘ciò che è’ con ‘ciò che non è’, per esempio parlando di nascita e morte: ‘ciò che è’ in realtà è sempre stato, altrimenti ci sarebbe stato un tempo in cui non era, di conseguenza non sarebbe più ‘ciò che è’, quindi non potrebbe esistere. L’essere è e non può non essere – qualche reminiscenza? –. Di conseguenza ‘ciò che è’ è sempre e in ogni luogo, senza discontinuità.
Quando quindi mio nonno diceva “e siamo qui”, manifestava una presa di posizione decisamente contraria alla filosofia di Parmenide: “siamo qui; altrove non siamo; il nostro essere è limitato a questo luogo – e a questo tempo aggiungerei io”.
Mi domando chi abbia ragione: l’empirismo di mio nonno o il razionalismo di Parmenide, per il quale la nostra essenza, e l’essenza di tutto ciò che è, è “ingenerata, imperitura, immutabile, immobile, indivisibile, una.” Purtroppo, nel campo della metafisica, non è data nessuna certezza.



Bibliografia:
-Giuseppe Cambiano, Storia della filosofia antica.
-Claudia Bianchi, Pragmatica cognitiva
-Paolo Casalegno, Filosofia del linguaggio

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