L’undici
e dodici giugno scorsi ho assistito per la prima volta alle rappresentazioni
della tragedia greca che ogni anno si tengono nell’antico teatro di Siracusa.
Fin
dal liceo, quando per la prima volta studiai i testi dei tragediografi greci
ricordo di essere rimasto affascinato dalla loro grandezza di scrittura.
Vero
è che nel leggerli non si riesce talvolta a percepire la forza che promana da
quei versi, fatti in realtà per essere recitati. Iniziative – odio questa
parola, ma temo sia la più corretta in questo caso – come questa, promossa dall’ INDA (Istituto Nazionale
di Dramma Antico), hanno la grande capacità di far rivivere in maniera
integrale queste pagine che segnano una tappa formidabile della cultura europea. – Addirittura viene talvolta
da chiedersi se abbia poi molto senso continuare a scrivere, a produrre
letteratura (nel senso più lato possibile), se sia ancora possibile creare
qualcosa che non sia già stato detto in qualche modo; probabilmente non è un
caso che intorno a noi la tendenza generale, in buona parte del cinema come
nella letteratura, talvolta nella musica e nell’arte e senza dubbio nella moda,
sia quella del remake, della rielaborazione, del rimaneggiamento, che indoriamo
con espressioni come “tributo”, “riferimento”. Pensiamo alla popolarità di cui
gode lo stile cosiddetto vintage. Forse è vero che viviamo in un’epoca un po’
neoclassica; forse è vero quello che diceva Whitehead, che anche tutta la
filosofia non è altro che una glossa a Platone.
Ma
torniamo a Siracusa; dicevamo che ho assistito alle rappresentazioni
dell’Orestea di Eschilo. Non so se tutti lo sanno, ma si tratta di un ciclo di
tre tragedie comprendenti l’Agamennone, le Coefore e le Eumenidi. Nell’antica
Grecia – stiamo parlando del V secolo a.C. – in occasione di alcune festività
particolari, per esempio le Grandi Dionisie, si tenevano quelli che venivano
chiamati agoni tragici, vale a dire delle gare tra tragediografi. Ogni
tragediografo doveva presentare un ciclo di tre tragedie, più un dramma
satiresco. I tragediografi in gara erano sempre tre, e le rappresentazioni si
svolgevano nell’arco di quattro giorni, finendo il giorno della festività
cittadina, durante il quale si proclamava il vincitore. Eschilo vinse l’agone
tragico delle Grandi Dionisie con il ciclo dell’Orestea nel 458 a.C.
Nel
contesto di queste rappresentazioni siracusane le tragedie erano state ridotte
a due, grazie ad un accorpamento abbastanza ben riuscito di Coefore e Eumenidi.
– In realtà in cartellone c’erano anche le vespe di Aristofane, una commedia,
ma devo confessare che non ho mai amato troppo la commedia classica; magari a
torto, chi lo sa?
Comunque
le tragedie sono state molto belle, in particolar modo l’Agamennone, in
parte forse per il suo carattere più spiccatamente umano. Delle
Coefore/Eumenidi ricordo con particolare coinvolgimento l’apparizione delle
Erinni da dietro gli “scogli” che formavano la scenografia: una scena realmente
inquietante, anche grazie ad una colonna sonora a mio avviso molto ben riuscita
(forse più di quella dell’Agamennone) e ad una interpretazione, soprattutto
fisica, veramente notevole da parte del coro delle Erinni. Di grande impatto
anche la recitazione di Elisabetta Pozzi, Clitemnestra in entrambe le tragedie.
Non mi è piaciuto Oreste (Francesco Scianna) ;
ma in generale tutte le Coefore/Eumenidi mi sono piaciute meno dell’Agamennone.
Temo che la regia non sia stata totalmente all’altezza.
Viste queste rappresentazioni, mi è venuta in mente una cosa: oggi non si scrivono tragedie. Oggi
tuttalpiù si parla di drammi, di film drammatici. L’aggettivo tragico è per lo
più passato al linguaggio del giornalismo o utilizzato con intento parodistico.
Mi
sono domandato come mai. La risposta che sono riuscito a trovare è questa:
perché si parli di tragedia è necessario che del mondo si abbia una visione ben
precisa, sostenuta da un pensiero forte. Se si pensa alle tragedie greche, così
come alle tragedie di Shakespeare, che di quelle riprendono alcuni topoi fondamentali, ci si accorge di un
elemento essenziale: non sta tutto nell'umano. Ossia c’è sempre l’idea di
qualcosa di superiore all'uomo, che ne determina la sorte. Prendiamo qualche
esempio: nell’Orestea si attua la conclusione di una serie di fatti di sangue
iniziati ben prima degli eventi narrati nella tragedia stessa e che da
generazioni macchiano la famiglia di Agamennone, gli Atridi. E’ quindi presente
il tema di una colpa che si ripercuote di padre in figlio. Ma una colpa è una
violazione di una legge. Forse potremmo arrivare a parlare di un peccato, poiché
la colpa qui è da riferirsi ad una legge non solo umana, ma divina. Il peccato
nella tragedia greca assume solitamente il nome di Hybris, traducibile con l’arroganza, la tracotanza, il superamento
dei limiti umani; in senso lato, l’infrazione della legge divina. E’ questo
l’elemento che turba l’equilibrio e deve essere espiato dai personaggi della
tragedia.
Ma
questa necessità di espiazione può avere senso in un ottica nella quale
l’uomo è sovrastato da una serie di forze più grandi di lui: prima tra tutte il
Fato, Ananche, che si potrebbe anche
tradurre con “necessità”. C’è nel concetto di Fato l’idea di una inevitabilità,
di qualcosa che sfugge al controllo umano.
E’
un po’ questo quello che volevo sottolineare: per scrivere una tragedia, si
deve accettare in qualche modo l’idea di questa impotenza umana. Mi viene ora
in mente Tristan und Isolde di
Wagner, dove i due amanti, fin dall’inizio dell’opera, presagiscono l’ineluttabile
destino cui vanno incontro. E paiono in qualche modo rassegnati ad esso. Nel
film Il compleanno di Marco Filiberti
(un film non splendido, ma che senz’altro ha delle frecce al proprio arco), si
rifa un po’ il verso al Tristan und Isolde:
la prima sequenza del film è proprio una rappresentazione di quest’opera,
durante la quale uno dei protagonisti,
Matteo, afferma: “non mi piace questo Wagner. C’è troppo Schopenhauer”. In
realtà è proprio la voluntas di
Schopenhauer che sembra pervadere le azioni dell’opera wagneriana, così come quelle dello stesso film; una forza
non percepita, che trascina gli uomini e le loro azioni.
Oggi
è difficile che si scriva di ineluttabilità. O meglio, forse, è cambiato il soggetto
che opera con necessità. Si sentono frasi come “non vado a votare, tanto non ci
si può fare niente”. L’ineluttabilità va un po’ a braccetto con il
qualunquismo. Per gli altri, vale un po’ il superuomo: è tutto nelle nostre
mani! Chissà se tra i due estremi, nel nostro ventunesimo secolo ormai
inoltrato c’è ancora spazio per la tragedia.
(questo breve scritto è solo un abbozzo, passibile di numerose e necessarie migliorie)