Mio nonno e il suo insospettabile rapporto con Parmenide
Una cosa che mio nonno ha sempre fatto – e con lui tutta una
serie di anziani che ho incontrato, per lo più in Toscana – , quando la
conversazione languiva, era quella di spostare lo sguardo lontano,
possibilmente verso la linea dell’orizzonte, e sospirare dicendo: “Eh… e siamo
qui.”
Prendendo in prestito una terminologia propria della
filosofia del linguaggio, potremmo dire che dal punto di vista strettamente
semantico – ossia, per quanto riguarda il significato delle parole e delle
frasi, cioè solamente ciò che esse indicano, il loro contenuto esplicito –
questa frase non possiede un contenuto informativo molto ricco; si limita quasi
ad esprimere una tautologia, cioè una affermazione sempre vera
indipendentemente da chi la pronuncia e, in questo caso, da dove la si
pronuncia – un esempio classico di tautologia è l’enunciato “A è uguale ad A”,
affermazione sempre vera indipendentemente da chi sia A, poiché qualunque cosa
è sempre uguale a se stessa, con buon pace di Eraclito - : è evidente che
ciascuno di noi si trova esattamente dove è.
Dove è nascosta perciò la parte interessante di questa
frase?
In parte, in un altro settore della filosofia del
linguaggio, che viene chiamato pragmatica, in quanto si preoccupa della prassi,
della pratica della comunicazione umana. Facciamo un rapido esempio: se io
entro in casa e domando a mia sorella dove si trovi mia madre e lei mi risponde
“c’era da fare la spesa”, da un punto di vista strettamente semantico, non ha
risposto alla mia domanda. La sua risposta ha però in sé delle informazioni
implicite, che infatti si chiamano implicature: se mi ha sorella mi ha risposto
“c’era da fare la spesa” alla domanda “dov’è nostra madre?”, io posso dedurre
che mia madre si andata a fare la spesa.
Se a questo punto è abbastanza chiaro cosa significa il
termine “pragmatica”, possiamo passare a vedere cosa si può leggere,
pragmaticamente, nella frase “siamo qui”, al di là del suo significato
letterale.
In primo luogo, c’è un senso essenziale che viene veicolato
dalla persona che pronuncia la nostra frase: “non sappiamo di cosa parlare;
dico queste parole tanto per evitare questo imbarazzante silenzio…”. E questo è
probabilmente l’uso principale di tale espressione. Almeno da parte di mio
nonno.
Tuttavia mio nonno era una persona di un certo spessore,
quindi è assolutamente errato aspettarsi un solo significato implicito in una
frase di questo tipo pronunciata da lui.
Mio nonno, superati i settantacinque anni cominciò ad
aspettarsi di lasciare questo mondo quasi da un giorno all’altro. Perciò ecco
che si può indovinare un secondo senso: “e anche oggi ci siamo, siamo vivi;
nonostante tutto, siamo ancora qui.”
Tale senso era particolarmente evidente quando, d’estate,
mio nonno se ne stava in giardino, seduto sulla sua sedia a guardare il sole
che tramontava verso Firenze.
C’erano poi delle volte che mio nonno usava questa
espressione quasi come una chiusa, per mettere il punto, generalmente dopo che
magari aveva raccontato qualche suo vecchio ricordo o aneddoto del passato.
Sarà capitato a tutti di sentir raccontare qualche vecchia storia da un nonno o
da una qualunque persona più anziana. E tutti avranno provato quel senso di
divertimento e anche di calore nell’ascoltare. Quando il racconto è terminato,
spesso ci sono alcuni istanti di silenzio, nei quali, sorridendo, si rimugina
su quanto si è ascoltato. Talvolta c’è qualche domanda.
Mio nonno invece, passata la risata allegra che spesso lo
coglieva dopo i suoi racconti, sentiva l’esigenza di mettere come punto un bel
“Eh… e siamo qui.”
E in questo caso, nella frase c’era una nota di nostalgia:
“ma senti cosa mi ricordo! È passato tanto tempo ed ora siamo qui…”.
E per chiudere, forse un superfluo quarto senso di carattere
più ontologico.
In realtà credo che mio nonno non sia mai stato un esperto,
né uno molto interessato nel campo della metafisica. Ma per rimediare a ciò,
seppur in maniera assai modesta, ci sono io pronto all’uso.
Una frase come “siamo qui” mi riporta alla mente un po’ di
Parmenide.
Parmenide, uno dei filosofia presocratici, fondatore della
scuola di Elea, intorno al 500 a.C. Di lui è facile che ci si ricordi una
formulazione della sua teoria filosofica: “l’essere è e non può non essere”.
Da quel che ci è rimasto dalle opere di Parmenide, leggiamo
come il filosofo affermi che ‘ciò che è’ è l’unica cosa vera e l’unica che può essere conosciuta, ma l’uomo
spesso mescola ‘ciò che è’ con ‘ciò che non è’, per esempio parlando di nascita
e morte: ‘ciò che è’ in realtà è sempre stato, altrimenti ci sarebbe stato un
tempo in cui non era, di conseguenza non sarebbe più ‘ciò che è’, quindi non
potrebbe esistere. L’essere è e non può non essere – qualche reminiscenza? –. Di
conseguenza ‘ciò che è’ è sempre e in ogni luogo, senza discontinuità.
Quando quindi mio nonno diceva “e siamo qui”,
manifestava una presa di posizione decisamente contraria alla filosofia di
Parmenide: “siamo qui; altrove non siamo; il nostro essere è limitato a questo
luogo – e a questo tempo aggiungerei io”.
Mi domando chi abbia ragione: l’empirismo di mio
nonno o il razionalismo di Parmenide, per il quale la nostra essenza, e l’essenza
di tutto ciò che è, è “ingenerata, imperitura, immutabile, immobile,
indivisibile, una.” Purtroppo, nel campo della metafisica, non è data nessuna
certezza.
Bibliografia:
-Giuseppe Cambiano, Storia della filosofia antica.
-Claudia Bianchi, Pragmatica cognitiva
-Paolo Casalegno, Filosofia del linguaggio